Conto alla rovescia finito: dopo la 36ª settimana di gestazione, ogni giorno è buono perché mamma e bambino si sorridano guardandosi. Ma inizia anche un periodo impegnativo, che richiede un notevole sforzo fisico e psicologico. Possono nascere dubbi e incertezze: il parto andrà bene? Avrò latte a sufficienza? E poi: il bambino mangia abbastanza? come mai dorme così poco? «Niente paura, succede a tutte», rassicura la dottoressa Simona Sieve, presidente del Collegio delle Ostetriche di Milano-Lodi-Monza-Brianza. «L’importante è non perdere la fiducia in se stesse, nelle proprie risorse innate».
Tempo al tempo
Una volta le future mamme trascorrevano i mesi di attesa ricamando bavaglini e sferruzzando scarpine di lana. Oggi la situazione è cambiata: le donne lavorano e la legge prevede che il congedo maternità cominci dal settimo mese, o addirittura dall’ottavo se la gestante sta bene e vuole usufruire di un mese in più di astensione dal lavoro dopo la nascita del bambino. «La gravidanza non è una malattia ed è positivo che questo concetto sia entrato anche nel codice del lavoro», continua Sieve. «A volte, però, la conquista di un diritto non corrisponde al riconoscimento e al rispetto dei propri bisogni naturali: lavorare fino all’ultimo riduce il tempo dell’attesa e della preparazione al parto. Non permette di entrare in una logica di lentezza, necessaria fisiologicamente e psicologicamente per arrivare pronte alla nascita e con le energie adeguate per potere affrontare il successivo brusco cambiamento di ritmo». Questo non significa tornare al passato: lavorare si può, senza ignorarsi, concedendosi momenti di pace e di intimità con se stesse e con il nascituro. Il tempo libero non deve diventare una maratona tra corsi di ginnastica, shopping e lavori di casa. Fatevi aiutare nelle incombenze, uscite a passeggiare nel parco, accarezzandovi il pancione. E sferruzzare aiuta a rilassare la mente, soprattutto la sera, prima di andare a dormire.
Il sostegno più adatto
Un proverbio africano dice: «Per crescere un bambino, ci vuole un intero villaggio». Difficile applicarlo qui e oggi, vivendo magari in una grande città. La difficoltà maggiore cui va incontro una neomamma è proprio la mancanza di riferimenti rassicuranti. «Spesso manca la rete di sostegno della famiglia, delle vicine, della comunità, della tradizione», osserva ancora Sieve. «Anche quando si ha la fortuna di avere accanto la propria famiglia, nonni e parenti possono accrescere le ansie anziché alleggerirle».
E il neopapà? Certo, la sua presenza è importantissima per dare affetto, serenità e stabilità, ma difficilmente ha la competenza per sciogliere dubbi e paure di chi è alle prese con allattamento, stanchezza, pianti... «Quando si torna a casa dall’ospedale dopo il parto, di solito i riferimenti sono il ginecologo per la mamma e il pediatra per il bambino; ma spesso c’è bisogno di una figura di sostegno in grado di seguire allo stesso tempo mamma e bambino. Il mio consiglio è di rivolgersi a un’ostetrica o a una puericultrice,
cercandola in strutture pubbliche (reparti maternità, asl, consultori) o associazioni o gruppi specialistici (vedi box)». Una persona competente, capace di accompagnare la mamma senza giudicarla (a differenza di amiche, vicine e suocere...), di darle informazioni e magari anche di aiutarla a sorridere quando va un po’ in tilt.